Cina, il «male oscuro» che decima i generali di Xi Jinping (2024)

diGuido Santevecchi

Degradati e accusati di tradimento e slealtà verso il Partito gli ultimi due ministri della Difesa: vendevano promozioni e lucravano sugli approvvigionamenti. Dal 2023 sono rotolate le teste di altri nove generali e tre alti dirigenti di industrie militari

In un Paese normale, se gli ultimi due ministri della Difesa fossero stati rimossi per corruzione e tradimento, si aprirebbero scenari foschi, da golpe. In Cina invece, il siluramento dei vertici dell’Esercito popolare di liberazione è diventato normale.Nel 2017 la Xinhua scrisse: «Dal 2012, sotto la guida del compagno Xi, oltre 100 alti ufficiali sono stati arrestati: un numero superiore a quello dei generali caduti sul campo di battaglia durante le guerre rivoluzionarie». Da allora l’elenco dei «fucilati» (metaforicamente parlando) si è allungato.

Giovedì 27 giugno il Politburo di Pechino ha annunciato che i generali Li Shangfu e Wei Fenghe sono stati espulsi dal Partito comunista, degradati, messi nelle mani dei magistrati militari: è finita così nel disonore la carriera dei due ex ministri che erano stati al vertice della Difesa negli ultimi sei anni. Che coincidono con i tempi del massimo sforzo di Xi Jinping per riformare le forze armate e prepararle «a combattere una guerra e vincerla»: parole sue, ripetute ossessivamente.

Ora il pronunciamento del Politburo comunista presieduto da Xi Jinping: i due generali si sono resi colpevoli di «reati eccezionalmente gravi che hanno creato un danno immenso». Li Shangfu è accusato di «tradimento dei principi su cui si fonda il Partito» e il suo predecessore Wei Fenghe di «aver perso la fede nel Partito». Tra le righe della scomunica si capisce che il tradimento è stato diretto nei confronti di Xi Jinping, che oltre a essere il comandante politico dell’Esercito popolare di liberazione («Il Partito comanda il fucile» aveva sancito Mao), aveva anche personalmente promosso i due ufficiali al vertice del Ministero della Difesa.

Xi si è impegnato in un’azione di pulizia dei ranghi militari, con l’obiettivo di rilanciare le capacità di combattimento di un esercito numericamente imponente ma arretrato, ancora dieci anni fa basato su masse di fanteria impreparate alle operazioni rapide e coordinate che servono a una proiezione di forza all’estero degna di una superpotenza. Xi, con una riforma del 2015, ha snellito le divisioni di fanti e dirottato la spesa su unità d’élite, aeronautica e marina.

Ma il primo nemico da sconfiggere è all’interno: è la corruzione endemica. Secondo l’atto di accusa del Politburo, che equivale a una condanna certa almeno all’ergastolo, i due ex ministri hanno chiesto e ottenuto «enormi somme di denaro» sia nel campo delle forniture militari sia nelle «disposizioni relative al governo del personale». Questo secondo capo di imputazione mette in luce il male oscuro: nell’esercito cinese si può fare carriera corrompendo i superiori per ottenere promozioni. Si dice che il sistema sia così radicato e diffuso che il soldato semplice paga per diventare sergente e così via risalendo la catena di comando, fino al colonnello che vuole il grado di generale.

Dice Bill Bishop, autore della rispettata newsletter Sinocism: «Li Shangfu pagò Wei Fenghe per far carriera? Dopo tutto il lavoro fatto contro la corruzione, nell’Esercito cinese si continuano a vendere e comprare le promozioni. Serve denaro per comprarsi un grado e il salario non è sufficiente per la tangente, quindi dopo aver pagato per la nomina si deve trovare il modo di rientrare della spesa». La catena della corruzione.
Prima di diventare ministro della Difesa, il generale Wei Fenghe aveva comandato la forza missilistica cinese, punta di lancia di ogni esercito moderno. E sui militari che hanno in mano gli ordigni nucleari e convenzionali della superpotenza cinese la falce dell’inchiesta anti-corruzione continua ad abbattersi: ad agosto del 2023 sono stati silurati i generali Li Yuchao e Liu Guangbin, comandante e vice delle divisioni missilistiche. È particolarmente inquietante (non solo per Xi ma per la sicurezza internazionale) che uomini con una responsabilità così grande prendessero decisioni per tornaconto personale.

In tutto, solo basandosi sulle notizie pubblicate dalla stampa di Pechino, nell’ultimo anno sono caduti sotto la falce del Partito nove generali e tre di alti dirigenti del complesso militar-industriale.Il fatto che dopo quella purga sia rotolata anche la testa di Li Shangfu dimostra che Xi e il suo Politburo non possono essere sicuri di nessuno, la corruzione è endemica.
Prima di diventare brevemente ministro, il generale Li Shangfu (ingegnere aerospaziale) aveva diretto una base per il lancio di satelliti e poi dal 2017 all’inizio del 2023 era stato a capo del «Dipartimento per l’approvvigionamento e lo sviluppo dell’equipaggiamento» dell’Esercito popolare di liberazione: una posizione che controlla un colossale giro di affari e denaro.

«Li Shangfu ha gravemente inquinato il settore dell’acquisizione di equipaggiamenti e le industrie connesse», dice l’atto di accusa.
Xi non doveva avere sospetti sull’ufficiale, se lo aveva promosso al vertice del Ministero della Difesa nel pieno della campagna di risanamento. Ma nel luglio del 2023 il suo vecchio Dipartimento, in una rara dichiarazione riportata dalla stampa di Pechino aveva annunciato di essersi impegnato in una «opera di pulizia» della procedura per l’assegnazione degli appalti «e aveva invitato chiunque avesse informazioni su irregolarità risalenti fino al 2017 a comunicarle agli investigatori. Ad agosto Li smise di comparire in pubblico. Nessuna spiegazione ufficiale per mesi.

I «pechinologi» occidentali hanno immaginato che l’inchiesta sia stata anche una vendetta dell’establishment militare, un boicottaggio dell’azione moralizzatrice di Xi: se neanche Li era puro, se tutti per far carriera hanno prima pagato e poi imposto tangenti, meglio accettare la situazione e voltare pagina.Solo lo scorso dicembre, dopo cinque mesi di vuoto inconcepibile per una superpotenza che ha bisogno di mantenere contatti politici al massimo livello con gli Stati Uniti, è stato nominato il nuovo ministro della Difesa: è l’ammiraglio Dong Jun (Xi ha investito molto sulla Marina, che nei suoi piani dovrebbe conquistare la supremazia nel Mar cinese meridionale).
Un altro cruccio di Xi è la «malattia da pace»: decenni senza esperienze di combattimento, al contrario degli avversari americani impegnati dalla Somalia all’Iraq all’Afghanistan (anche se non sono usciti bene da quei «conflitti asimmetrici»).

L’Esercito popolare di liberazione si è battuto solo una volta negli ultimi cinquant’anni, uno scontro rapido con il Vietnam nel 1979. Sulla frontiera himalayana contestata con l’India le scaramucce si combattono con vanghe, picconi da trincea e e mazze chiodate, perché un accordo bilaterale proibisce le armi da fuoco in prima linea per evitare un’escalation. Questo non ha impedito che nel giugno 2020 in uno scontro siano morti decine di uomini.

Sicuramente, tra i piani formulati dai generali di Xi c’è quello per «risolvere» la questione taiwanese: riunificazione con la forza se la persuasione (la minaccia) politica non basterà. Ma quanto è formidabile il dispositivo militare della Cina? I numeri sono imponenti, per personale in servizio permanente (2 milioni), mezzi aerei (3.700 dei quali 500 bombardieri e 1.800 caccia), navi (370), missili (500 a testata nucleare). Però, dietro proiettili e acciaio, c’è il fattore umano da considerare.

«Bisogna reprimere le false capacità di combattimento», ha detto a marzo il generale He Weidong, uno dei due vicepresidenti della Commissione centrale militare di cui Xi è naturalmente il Numero 1. Il "Quotidiano dell’Esercito popolare di liberazione" ha citato il caso di «esercitazioni notturne» fatte svolgere «al tramonto», quando la visibilità è migliore per poter scrivere nei rapporti che l'operazione ha avuto pieno successo.
Il 19 giugno l’agenzia Xinhua ha riferito la frase chiave pronunciata dal presidente durante una riunione con i militari: «I quadri, soprattutto quelli ad alto livello, debbono avere il coraggio di mettere da parte il prestigio personale e ammettere i loro punti deboli. I quadri dell’Esercito debbono riflettere profondamente e rettificare i loro comportamenti e i loro pensieri». E significativamente, per pronunciare il suo discorso Xi è andato a Yan’an, la storica roccaforte dove l’armata maoista si attestò al termine della Lunga Marcia.

Tra le accuse emerse ora nell’inchiesta sui due ex ministri c’è anche la «slealtà e il tradimento» nei confronti del Partito. Un’altra frase pronunciata da Xi nell’ultima grande sessione di indottrinamento degli alti gradi a Yan’an: «Il fucile dev’essere sempre impugnato da uomini leali al Partito e affidabili politicamente». Rivisitazione della parola d’ordine di Mao. E questa circostanza cela un grave problema di fondo che secondo gli analisti pesa sulla reale capacità di combattimento delle forze armate cinesi. La loro politicizzazione implica che la prima missione sia la protezione del potere comunista, le promozioni in ruoli di alto comando dipendono spesso dalla fedeltà vera o presunta al Partito, non dalla capacità tecnica, tattica e strategica. Negli ultimi cinquant’anni lo scontro più sanguinoso per i soldati dell’Esercito popolare è stato con il suo stesso popolo: il massacro di Tienanmen del 1989.